Recensione – Elvis, il biopic sul re del rock lascia il suo monito: “Quando è difficile dire ciò che senti, canta”
Il ragazzo che ancheggiava cantando arriva al cinema con il biopic ‘Elvis’.
Da Memphis alle vette discografiche mondiali Elvis The Pelvis ha monopolizzato il rock in modo sconvolgente, ispirandosi alla musica black. Il suo mito? B B King, cosa che lo spinse ad infrangere le leggi di segregazione razziale semplicemente facendo spettacolo.
Lui, l’imbonitore del pubblico, viveva in realtà la più grande solitudine, impegnato ad essere altro da ciò che davvero avrebbe desiderato.
Infelice come pochi, eccetto quando ascoltava la vera essenza della musica al Club Handy con B B King diventato da mito, amico. Raccolse da lui il segreto della vita che è quello di lasciarsi andare a ciò che ci fa stare bene senza pensare, soprattutto quando ci si sente tristi. E per Elvis danzare mentre cantava, era la sola cosa che contasse mentre troppa gente faceva soldi su di lui.
“Alla fine dovete ascoltare voi stessi”, questo il suo monito.
Più figlio che artista, Elvis amó pienamente sua madre, l’unico grande amore della sua vita. Gladis, questo il suo nome, più lo guardava, più si preoccupava e più beveva. Aveva già preannunciato che quel dono che Dio aveva dato al figlio, lo avrebbe prima o poi portato in rovina. Elvis non perdonerà mai a se stesso queste conseguenze e finirà per estremizzarle facendo del male alla sua stessa vita.
Si riprenderà e cadrà alternativamente, dopo aver toccato le vette di Hollywood ed essere diventato l’attore più pagato nella storia dell’industria del grande cinema internazionale. Il re del rock aveva infatti un sogno: essere un ottimo protagonista del grande schermo. Questa parentesi della sua carriera non sortì però il suo effetto in termini di gradimento del pubblico ed il ragazzo di Memphis desideró per questo tornare a cantare.
A dargli la forza di farlo, anche se per poco, fu la sua Priscilla, donna amata ma lasciata andare via per inseguire un impresario sanguisughe che di fatto ha tenuto in pugno la vita e la carriera del grande mito, segregandolo negli ultimi anni di vita a Las Vegas, che ancora oggi gli tributa onori.
Sul palco dell’International Hotel il mondo hippy incontrava così la propensione del re per la musica gospel, rhythm & blues oltre che rock, in una fusione che era puro scoppiettio e giro di giostra, su un set in cui il cuore di Elvis batteva davvero solo per le note e per le cause di giustizia sociale che avrebbero potuto renderlo un vessillo per la nazione, facendo sentire la sua voce.
La scomparsa di Martin Luther King sconvolse infatti il cantante, turbandone la lucidità.
Nella frase ‘Tutto ha a che vedere con noi’, il signor Presley non intendeva solo mandare il pubblico su di giri con la sua musica; desiderava contemporaneamente promuovere l’integrazione umana, cosa che gli fu più volte vietata dal suo entourage. Qui è la grandezza del mito Elvis, icona intramontabile che in questo film tocca le corde del cuore come un uccellino intrappolato tra i rami, che rivendica la libertà con un cinguettio continuo che è puro canto di ribellione.
La Worner Bros ci presenta così, ascesa e declino di un artista diventato leggenda. Lo fa puntando su un regista, Baz Luhrmann (celebre per Moulin Rouge ed Il grande Gatsby), che con il suo stile estremo valorizza Elvis e un Austin Butler già proiettato per l’Oscar 2023, accompagnato sullo schermo, dall’enigmatico Colonnello Tom Parker, interpretato da uno straordinario Tom Hanks.
Il film insegna che il successo è anche una scelta e percorrerlo nel modo giusto, affidandosi alle persone oneste, coinvolgendo gli affetti autentici, resta l’unica via di sopravvivenza all’assurdo meccanismo del mondo dell’intrattenimento e degli affari; quello stesso mondo che ha distrutto Elvis all’età di 42 anni.
Il lungometraggio è un’altalena umana tra dolore e desiderio represso di un giovane uomo che ha incantato il mondo con i suoi eccessi sfolgoranti, tali da farlo brillare anche lungo il viale del tramonto.
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