22 Novembre 2024
Attualità

Intervista – ‘Sulle tue ossa’, il romanzo d’esordio di Paolo Cipolletta: “Se vogliamo avvicinarci al suono della vita, dobbiamo ascoltare il nostro corpo che non mente mai”

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Lo ha definito un romanzo “somatico” e in effetti si presenta al lettore come una radiografia perfetta di ogni singola vertebra del nostro corpo, strettamente vincolata ad un trauma o ad un’emozione. Paolo Cipolletta, regista e sceneggiatore, torna ad indagare i nostri stati emotivi e lo fa questa volta attraverso la stesura di un romanzo ‘Sulle tue ossa’, edito Mea.

Il thriller tratto da una reale storia di cronaca, presenta uno spaccato familiare con continui colpi di scena che lasciano a tratti commuovere, a tratti restare senza fiato, davanti all’evolversi del racconto. Massimo e Paola sono i protagonisti della penna di Cipolletta, inizialmente catapultati in un vortice di felicità, destinato a trasformarsi subito dopo  in un mistero avvolto da dubbi ed angoscia.

Onirico e psicanalisi intervengono così, nella dinamica del racconto in cui si spezza un equilibrio familiare per ricostruirne un altro. Quando però si tenta di dimenticare quel che è accaduto, ecco che il corpo presenta il suo conto, somatizzando gioie e dolori, caricandosi di tutta la storia pregressa che, a breve o lungo raggio, abbiamo vissuto.

Così, tra un’indagine sul valore dei legami e della famiglia, l’autore inevitabilmente racconta uno spaccato emotivo femminile e lo fa con tatto ed immedesimazione, tanto da far sentire ogni lettrice pienamente accolta e capita. In Paola (cardiologa affermata), risiede infatti lo spirito di ogni donna: tenace e combattiva, mentre in Massimo (brillante musicista), si delinea tutto il senso di adattamento e resistenza all’evolversi degli stadi della vita, vissuti soprattutto nella dimensione di padre.

SCRITTURA E PASSIONI DI PAOLO  CIPOLLETTA – L’INTERVISTA  

Paolo, la scrittura del romanzo esordisce con riferimenti alla musica. Quanto le è familiare questa dimensione?

Sotto certi aspetti è familiare perché la musica fa parte del mio background. Enzo Avitabile è mio cugino e mi ha fatto da maestro esistenziale in questo ambito. Credo che la musica sia un rifugio; lo è stato per me in diverse fasi della vita in cui mi ha aiutato a superare delle barriere.

Il titolo del libro crea una connessione tra le ossa del nostro corpo ed il ricordo. Che rapporto ha però lei con i ricordi?

Ho un rapporto turbolento. Penso che i ricordi circostanzino e condizionino lo sviluppo futuro della nostra personalità. Ricordo i riferimenti degli studi sul materialismo storico del periodo liceale. Marx diceva che dobbiamo evitare che i morti riafferrino i vivi nelle storie familiari. Noi siamo anche dolori e da scrittore ho voluto raccontare una storia che ci invitasse ad ascoltare il nostro corpo, abituato a metterci in connessione con la parte più nera di noi stessi.

Attraverso la figura di Paola è riuscito a dare un’immagine del femminile perfetta. Da cosa deriva questa sensibilità?

Mi è stato detto che ho una predisposizione naturale nel riuscire a parlare di femminilità; forse questo è dovuto ad una sensibilità innata e dal fatto che essendo cresciuto tra donne, sono sempre stato attratto dall’approccio alle vite del mondo femminile, che restano un mistero fatto di devozione e ribellione.

Nel suo romanzo appare la descrizione di una Napoli che non cade nello stereotipo. Che immagine ha inteso dare della sua città?

Sopratutto nella prima parte del libro c’è una descrizione di una Positano e di una Napoli in sottrazione, perché è una città bagnata dalla pioggia. Questo espediente del racconto mi ha permesso di riavvicinarmi a Nicola Pugliese e ad uno dei suoi racconti datati 1977, ‘Malacqua’. Ho voluto rievocare quell’atmosfera di attesa straordinaria; mi è servito per raccontare una Napoli che non sia soverchiante, che non sovrastimi la sua stessa storia. Il mio è uno sprone ad indagare una Napoli che riscopre la sua normalità per ritrovare una connotazione non di eccessi e straordinarietà, recitando di continuo se stessa.

In quest’opera lei fa riferimento netto alla psicoanalisi. Si tratta di un espediente narrativo o di una predisposizione di interesse?

Mi sono accorto, al di là di questo libro, di avere un’inclinazione ed un interesse per la psicoanalisi. È un aspetto che ho ritrovato anche nella stesura del mio primo cortometraggio ‘La Gatta mammona’, per cui la psicoanalisi mi accompagna sempre nelle storie che racconto. Ho approfondito questa materia all’università e da essa attingo molto per l’evoluzione del mio pensiero, nel comprendere come si possa reagire con l’esperienza, alla paura. Anche nel mio film ‘Fino ad essere felici’ ho voluto indagare i meccanismi di difesa che l’animo umano innesca tra sublimazione e proiezione. Questa super focalizzazione mi è venuta dunque spontanea.

Massimo è il protagonista maschile che invece lascia emergere la complessità delle dinamiche familiari tra genitori-figli, avvolte anche dal senso di colpa. Quanta attinenza c’è con la realtà che ci circonda?

Credo che il senso di colpa oggi ricada su tutti noi perché siamo inermi davanti alla disgregazione di quel formato famiglia che conoscevamo nei decenni scorsi e che ci ha procurato il senso di colpa di non essere complementari all’interno del vecchio sistema familiare. Sono cresciuto in una famiglia madre focale e non credo che questo abbia tolto nulla al sistema valoriale della mia crescita. Massimo si troverà a crescere da solo le sue figlie, in una famiglia non tipica, ma allargata dalla presenza della nonna e di un’altra compagna. Penso che nella disamina delle nostre realtà domestiche ci sia ancora un lato oscuro che innesta il timore di indagare il legame di sangue padre-figlio e la notizia di cronaca da cui è partito il mio racconto (un avvenimento accaduto in Sicilia), getta luce su quello che io chiamo perturbante, ovvero sul lato spaventoso che può assumere una dinamica in famiglia. Il mio desiderio era proprio quello di indagare i legami e gli equilibri distorti che a volte possono crearsi nei rapporti tra genitori e figli.

Quale aspetto di sé ha lasciato confluire nella scrittura e come ha modulato questa nuova esperienza lavorativa rispetto a quella di sceneggiatore e regista?

Non so se è emerso che nella profondità del rapporto dei legami di Massimo, c’è tanto dell’importanza del legame che ho con le mie figlie. In questo libro mi sono sentito molto padre e meno scrittore. L’ho elaborato in sei mesi di lavoro in cui è cambiato il mio rapporto con l’atto di scrivere. Prima ero abituato ad una scrittura di servizio, mentre questa volta sono sceso a fondo nelle dinamiche del romanzo, nato durante il primo lockdown.

Cosa le ha insegnato questo libro?

Mi ha insegnato che c’è ancora una parte molto oscura in ciascuno di noi, che non conosciamo e che i pensieri razionali e tutte le barriere che ci costruiamo sono solo iceberg. Si ha paura di scendere negli abissi, mentre i sogni in cui risiede ciò che ci inquieta, ci stimolano ad indagarli.

Che tipo di futuro avrà la sua scrittura? Ci sono progetti in vista?

La stesura del libro ha un respiro internazionale, pertanto ha suscitato un interesse di produzioni non italiane che intendono trasformarlo presto in un film.

– In conclusione, qual è il suo monito umano e professionale?

Il monito di oggi è contornato dal contingente. Ciò è palesato nel mio libro, in cui si vive nell’ottica dell’attesa. Credo pertanto che il monito sia quello di restare in attesa di qualcosa di magico che può cambiare la vita da un momento all’altro, in positivo. È un’attesa costruttiva, perché se vogliamo avvicinarci al suono della vita dobbiamo ascoltare il nostro corpo che non mente mai.


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Pina Stendardo

Giornalista freelance presso diverse testate, insegue la cultura come meta a cui ambire, la scrittura come strumento di conoscenza e introspezione. Si occupa di volontariato. Estroversa e sognatrice, crede negli ideali che danno forma al sociale.