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Il rapporto tra giustizia e politica. La necessità di una rivoluzione morale

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di Antonio del Mese.

La recente assoluzione di Berlusconi, l’ennesima, ed i commenti giornalistici che ne sono seguiti dimostrano la profonda crisi d’identità di una Nazione dove “giustizia” ed “informazione” non riescono a trovare il giusto equilibrio.

Nell’interesse dei cittadini.

La verità storica non si scrive nelle aule dei tribunali, tantomeno sulle pagine dei giornali. Berlusconi ha subito danni politici? Neanche per sogno. 

Da una parte, la giustizia.

Condannato in via definitiva per frode fiscale; destinatario di molteplici assoluzioni ed archiviazioni, oltre che nel merito, anche per prescrizione, amnistia o per modifiche legislative nel tempo intervenute.

Da altra parte, la carriera politica.

Quattro volte Presidente del Consiglio; parlamentare italiano ed europeo; Ministro degli affari esteri, dell’Economia e delle finanze, della Salute e dello Sviluppo economico (5 maggio 2010 – 4 ottobre 2010). Presidente del Consiglio italiano ed Europeo; con 3339 giorni complessivi è il politico che è rimasto in carica più a lungo nel ruolo di presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana, superato in epoche precedenti solo da Benito Mussolini e Giovanni Giolitti.

Ed allora?  

La verità non è nel processo, tantomeno sui giornali. Dovrebbe rivalutarsi, invece, la fondamentale funzione del processo: quella di pacificazione sociale.

E come?

Intervenendo sul sistema di rappresentanza politica che non può ridursi a cedere di sovente il passo ad interessi privati attraverso, per esempio, la puntuale svendita della legalità in cambio di consenso.

In Italia il partito dei condannati, che ha raccolto nelle ultime elezioni politiche circa 2 milioni di voti eleggendo ben quaranta parlamentari, è trasversale, come il partito del non voto.

Basti considerare la recente sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna, dell’oramai ex Sottosegretaria dell’Università Augusta Mortaruli, per l’uso improprio dei fondi destinati ai gruppi consiliari della regione Piemonte, tra il 2010 e il 2014.

Augusta Montaruli che, nel fare un passo indietro, ha affermato che: “Ho deciso di dimettermi dall’incarico di Governo per difendere le istituzioni certa della mia innocenza“.

Ancora una volta, si calpesta il valore della giustizia o, meglio, si allarga sempre di più la forbice tra morale, diritto e politica: alla Mortaruli, condannata da una Corte di Appello di questa Repubblica e in attesa della parola della Cassazione, non andava conferito un incarico di Governo.

Una società dove una sentenza non vale nulla, dove avere processi penali o contabili a carico costituisce opportunità per fare carriera politica e amministrativa, è un Paese dove la vita è totalmente svalorizzata, abitato da cittadini storditi tra scetticismo e rassegnazione.     

Diceva Enrico Berlinguer, oltre quarant’anni orsono, che i partiti “hanno degenerato, sono soprattutto macchine di potere e di clientela, gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata a questo modello, strutturato su correnti, camarille, ciascuna con un boss”.

Politica ed etica devono camminare insieme e trovare punti di contatto: la nuova questione morale è la “privatizzazione” della politica con partiti sempre più prigionieri del capo. Sì, proprio il “capo”, come oggi ci piace dire… capo dello stato, capo del governo, capo del partito, capo d’istituto, capotreno e così via. La Nazione, invece, ha bisogno di leader, dall’inglese to lead, dirigere, guidare e non di “capi” che amano circondarsi di servi sottomessi all’ordine e mai artefici di un pensiero, di una idea, di un progetto.

Il passo dall’indifferenza al fallimento è breve: basti citare, in ultimo, il Superbonus. 

Una misura disastrosa, da 120 miliardi di spesa e 50 miliardi di buco per una scellerata cessione illimitata dei crediti di imposta, realizzatasi grazie all’assenza di qualsivoglia controllo. Dov’era la Ragioneria Generale dello Stato che avrebbe avuto l’obbligo di impedire l’adozione di una siffatta misura? Per non parlare del reddito di cittadinanza, trasformatosi in reddito di sudditanza grazie all’assenza di controlli e alla generale tolleranza verso gli illeciti.   

La politica, di governo e di opposizione, con una pubblica amministrazione asservita rappresentano al meglio i fallimenti di una Nazione le cui istituzioni hanno bisogno di una seria ristrutturazione. Questo dovrebbe essere il primo obiettivo del Governo Meloni, quello di aprire a competenze lontane dalla logica delle appartenenze guidando, in tal modo, quella “rivoluzione” istituzionale di cui la Nazione ha urgente bisogno e rafforzare, in tale maniera, la propria autorevolezza.

Diceva Albert Einstein “Il mondo è quel disastro che vedete, non tanto per i guai combinati dai malfattori, ma per l’inerzia dei giusti che se ne accorgono e stanno lì a guardare”. 


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