Attualità

Il linguaggio della politica. La comunicazione di Kamala Harris e Donald Trump

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Anna Tortora

“Mettere una parola al posto di un’altra significa cambiare la visione del mondo sociale e, a partire da questo, contribuire a trasformarlo.”  P. Bourdieu
Se è così, continua P. Bourdieu, il linguaggio politico dovrebbe essere al centro di qualunque analisi politica.
Naturalmente, prima di affrontare il modo di comunicare di Kamala Harris e Donald Trump, bisogna chiarire che non si tratta solo delle forme del linguaggio politico; neppure solo delle strategie retoriche del linguaggio stesso.
“Nella nostra società dell’informazione” lo studio del linguaggio politico non pone solo le questioni relative ai mezzi di comunicazione politica ma, addirittura, l’interrogativo su chi parla veramente, oltre a quelli su chi parla di più, chi ha la parola e chi decide tutto questo.” D. Lyon
In altri termini, affrontare oggi il linguaggio e il discorso politico significa anche porsi il problema della politica del linguaggio.
È prioritario analizzare il linguaggio politico dal punto di vista dei cittadini destinatari più che da quello di chi parla.
Ed eccomi a guardare Kamala Harris che adopera un linguaggio woke, intriso di luoghi comuni femministi e ultra progressisti, che portano gli elettori ad essere sempre meno realisti.
Ma del resto, se tutto è comunicazione, la politica lo è più di tutto perché in regime democratico, la politica vive di consenso e il consenso si ottiene attraverso strategie e dinamiche comunicative.
Per quanto il pubblico destinatario è difficile per un leader posizionarsi o riposizionarsi; decidere cioè cosa bebba essere comunicato e come comunicarlo.
Problema, questo, che Trump sembra affrontare in maniera più “popolare”: lui spalanca una visione più identitaria, più economica e meno “artefatta”. Certo, il suo modo può sembrare rude, ma non sembra che dall’altra parte ci sia tutta questa classe…
Questi punti spiegano il carattere, a volte oscuro, del linguaggio politico, il “politichese”, che spesso è solo l’altra faccia dei sistemi politici attuali, sempre più articolati e in cui l’aggregazione del consenso sembra più facile nella confusione e nell’ambiguità.
D’altra parte se gli oggetti politici sono il prodotto delle rappresentazioni e quindi del linguaggio, se non sono cose immediatamente percepibili, quale altro strumento è migliore della forte coloritura metaforica dal momento che la parola politica, come dice G.L. Beccaria, è a servizio della persuasione e quindi deve essere in grado di convincere e di dare comandi suggestivi?
Ecco allora il moltiplicarsi, nel discorso politico, delle metafore di ogni tipo…
Chi è più metaforico la Harris o Trump? Direi entrambi. Chi è più diretto? Beh, Trump.
La parola, in politica, è diventata uno scopo fondamentale. Si discute, ci si batte nei talk, sui social…
Si può dire che la parola di Kamala sia solo evocativa, mentre quella di Donald non ha perso il valore descrittivo.
Da questo punto di vista, classificare i candidati alle presidenziali americane secondo i loro strumenti comunicativi potrebbe riservare altre sorprese: ci accorgeremmo, cioè, che la classificazione non coinciderebbe con i tradizionali e sbandierati spettri del brutto/cattivo solo da una determinata parte politica.


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Anna Tortora

Nata a Nola. Si è laureata alla Pontificia facoltà teologica dell'Italia meridionale. Le sue passioni sono la politica, la buona tavola, il mare e la moda. Accanita lettrice, fervente cattolica e tifosa del Milan.