Immaginativo Roberto Capasso in ‘Pacchiello’: non un’anima oscura, ma tela bianca su cui stendere forme e dolori
Napoli, 29 nov. – Immaginativo, catartico fino alle viscere, il Pacchiello di Roberto Capasso, che apre la programmazione ‘Actin’ Drama’ del Teatro Gelsomino di Afragola, preparandosi ad entrare in scena al Tin di Napoli, il 30 novembre.
Nella penombra avanza l’attore e prepara il suo grande spettacolo, pronto a spezzare sulla mensa del palcoscenico, tutti i dolori di un venditore di taralli caldi, carico dei suoi guai neri.
Pacchiello allestisce così il suo carosello; lo fa con nenie cantate e bambole in scena a tenergli compagnia. Sono esseri inanimati sì, ma all’occorrenza donano occasione per rappresentare gli incontri umani dell’usuraio più deplorevole di Napoli, finito poi in miseria.
Gigino o’malefico, Assunta velo e sposa, Natasha, sono alcune delle voci che caricano l’anima oscura di Pacchiello, votato per negligenza lavorativa, al malaffare che sfrutta il bisogno altrui per accumulare ricchezza.
Il rituale dell’usura viene appreso fin da bambino, quando Pacchiello ascolta donne riunite ad un tavolo, parlare in termini codificati della fruttuosa pratica dell’estorsione. L’uomo, deforme nell’aspetto, ma sagace, intuisce che può essere davvero vantaggiosa come professione, rispetto all’onesto lavoro di venditore di Taralli del padre, capace di far guadagnare solo pochi spicci per tirare a campare.
E’ gobbo ed intorno alla deformità si costruisce una follia che lo lascia diventare novello Riccardo III, malvagio in primis contro se stesso.
Le ferite della memoria hanno il loro bel peso scenico e Roberto Capasso ci invita alla sua corte e le plasma vividamente; le rende pane e carne, fá loro sudare lacrime di sangue anche se non si vedono.
Genesi, ascesa e declino si presentano in una trilogia emotiva intensa, mai banale per il Pacchiello uomo e personaggio, che diventa spettro pauroso dell’angoscia, non demone maligno, rappresentando così, il primo interrogativo dell’uomo. Davanti al mostro l’uomo deve arrestarsi o umilmente chiedere riscatto?
L’enigmatico punto di domanda shakespeariano si articola, elevandosi in scena. Roberto diventa terracotta liparese, tipica dei technitai di Dioniso, riletta in chiave neomelodica e napoletana: è ebbro di brama, si modella di volta in volta, offrendosi cratere e calice di nefandezze miste a sofferenza con misticanza di speranza.
E’ un giocoliere seduto a terra con le gambe “spezzate” dal difficile vivere, intento a lasciar volteggiare nell’aria i suoi racconti con stringenti confronti umani.
Il teatro del sordido, certamente drammatico, vive in unità attraverso la danza del ridicolo col male. Intellettuale e morale per il suo linguaggio parodistico-inventivo, Pacchiello spadroneggia sulla scena, carico del peso della sua anima corrotta…ed un tale dolore si sente e travolge con moto ondoso lo spettatore, al punto di pungolarne empatica immedesimazione.
Capasso scompone con talento tutto se stesso, donando al personaggio ideato da Pasquale Ferro, una umanità non deprecabile, ma compatibile.
Grande effetto teatro!
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