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Recensione – La potenza di ‘Gemito’ nella nobile performance teatrale di Antimo Casertano

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Napoli, 9 lug. – La storia di Vincenzo Gemito, uomo ed artista debutta al Campania Teatro Festival con Antimo Casertano, attore, autore e regista della pièce ‘Gemito – L’arte d’ ‘o pazzo’. Nella compagnia figurano anche Daniela Ioia, Luigi Credendino e Ciro Kurush Giordano Zangaro. 

La rappresentazione prodotta da Compagnia Teatro Insania, Associazione Culturale Nartea, vede l’assistenza alla regia di Lella Lepre, le musiche di Marco D’Acunzo e Marina Lucia, le scene di Flaviano Barbarisi e i costumi di Antonietta Rendini.

Il lavoro teatrale presentato nel Real Bosco di Capodimonte racconta l’ossessione artistica di Gemito, trovatello napoletano abbandonato nella ruota degli esposti, riscattatosi poi nel tempo con il suo guizzo artistico, geniale ed ardito, quasi maniacale, tanto da condurre il nostro, in manicomio tra il 1886 e il 1888.

Il racconto si dipana tra gli ultimi momenti trascorsi in manicomio dal pittore e scultore Gemito, fino alla sua libertà, trascorsa però in clausura domestica a causa del timore della derisione dei più.

L’investigazione attenta di Antimo Casertano su un personaggio napoletano ancora poco conosciuto dalla collettività, manifesta la chiara volontà dell’attore e regista, di far luce sugli annali storici partenopei, al fine di far riappropriare il pubblico napoletano di una gloriosa fetta di storia dell’arte autoctona, così da trarre da essa vanto e gloria.

Casertano, autore dalla penna mai banale, anzi fervida e innovativa, padroneggia la scena con nobile vis attoriale e fagocita il pensiero e l’animo dello spettatore, che resta attento e colpito per l’intera durata della rappresentazione.

La sua è una catabasi nell’istinto umano di Gemito, nel senso di vergogna dell’artista ed insieme, nel livello conscio ed inconscio del personaggio, giunti all’alterco sintomatico nella personalità di Vincenzo, in perenne lotta tra il dolore del fallimento e della malattia, con la volontà però, di uscire dal suo misero stato in nome della compagna di vita Nannina (Daniela Ioia) e della figlia Peppenella.

E’ proprio la Ioia a tendere la mano artistica sul palco a Gemito. Accompagna il personaggio di Casertano in scena con una nenia melanconica atta a diventare ora balsamo per le ossessioni dell’artista, ora furia che si insinua nella follia di un uomo ormai considerato pazzo degli stessi amici e familiari.

Daniela Ioia, unico personaggio femminile della rappresentazione, è calda nella sua veridicità interpretativa ricca di variazioni emotive: ora affranta, ora desiderosa di evasione perchè stanca di tanto tribolare.

Grazie alla sua bravura attoriale, il dramma umano e familiare si manifesta ed aleggia per tutta la durata dello spettacolo, conferendo forza e pathos alla vicenda cui si assiste.

Si appoggia alla figura di Gemito, anche il personaggio interpretato da Luigi Credendino. Sempre misurato, concentrato nell’interpretazione, realisticamente pregnante nel suo ruolo, Credentino è Salvatore, amico di Gemito che cerca suo malgrado di supportare la famiglia di Vincenzo mentre quest’ultimo è in manicomio.

La nemesi per il pittore e scultore è però il suo Carlo V, scolpito per adornare Palazzo Reale a Napoli, interpretato da un valente e fiero attore quale Ciro Kurush Giordano Zangaro. Il suo incedere sul palco, si nutre di sola mimica, statuaria e solenne. Zangaro rappresenta egregiamente il fantasma dell’ossessione di Gemito, tanto da rendere palpabile tutta l’incertezza e la soggezione che il suo personaggio genera nello scultore, non pago della realizzazione della sua opera, che reputa al contrario, sbagliata e per questo dannata.

Pretestuoso questo personaggio, allorchè schiavizza la psiche di Gemito, incline a vivere dell’odore e del sapore del marmo, cui dare forma nella sua unicità. E’ proprio il blocco monolitico da cui cavare una sostanzialità, ad essere la vera prigione dell’artista. Quest’ultimo vive l’esistenza come una dannazione, dove il dubbio rappresenta l’unica certezza.

Le sue abitudini diventano dunque di marmo, schiacciano il desiderio esistenziale di Vincenzo e si tramutano in demoni interiori. Il tema della pazzia è ricorrente nello spettacolo ed apre la sempiterna ‘quaestio’ sull’accettazione dell’imperfezione e del destino artificiale, non solo di Gemito, ma di ogni essere umano. Ognuno ha la sua croce da portare in spalla; ciascuno vive nel quotidiano la sua passione. Nel caso di Gemito quest’ultima è la volontà di far sempre bene e di essere amato soprattutto come artista. Da qui Casertano affronta nei panni dello sculture, il dubbio amletico sulla meritocrazia dell’arte, tema attuale, analizzato nella dicotomia tra talento e favoritismi; libertà creativa e commissione imposta dai potenti; tra moda e successo.

Gemito chiede a se stesso e ci interroga, su una serie di quesiti: “E’ giusto che l’arte sia concepita come vile mercimonio? E’ ammissibile che occorra sedersi ai tavoli giusti per lavorare e vedere riconosciuti i propri meriti?”. Poi aggiunge: “L’artista può sbagliare?” oppure “In lui c’è più capacità umana o ispirazione divina?”.

Nell’incertezza artistica e vitale di Vincenzo Gemito, si cala completamente Antimo Casertano, come in un transfert perfetto. In qualità di autore, attore e regista, restituisce splendida dignità alla storia, al personaggio e all’artista di ieri e di oggi, figura complessa nei suoi moti creativi, ma tremendamente necessaria per seminare bellezza nell’ordinarietà.

La performance vincente risulta splendida nella sua messa in scena, piena, commovente e magnificamente interpretata.

 

 

 


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Pina Stendardo

Giornalista freelance presso diverse testate, insegue la cultura come meta a cui ambire, la scrittura come strumento di conoscenza e introspezione. Si occupa di volontariato. Estroversa e sognatrice, crede negli ideali che danno forma al sociale.