Cesare Pavese tra mille contraddizioni
“Il 27 agosto del 1950 Cesare Pavese si tolse la vita. Di lui restò una biografia ufficiale e una sommersa. La versione canonica narra che fu scrittore antifascista, mandato dal regime al confino, importò il vento della libertà traducendo scrittori americani, si iscrisse al Pci, lavorò all’egemonia culturale della sinistra con Einaudi. La versione negata racconta invece che fu intellettuale solitario, disorganico, estraneo allo storicismo marxista, censurato in vita all’Einaudi e censurato post mortem dagli intellettuali organici del Pci per il suo diario sconveniente, tenuto nascosto per ben 40 anni”.
Marcello Veneziani
A riportarlo sulla breccia è stata la ristampa integrale di questo diario “Il mestiere di vivere”.
A farlo diventare un caso è stata la pubblicazione su La Stampa dell’8 Agosto 1990 di un inedito taccuino segreto. Si tratta di alcuni fogli sui quali tra il 1942 – 43 Pavese scriveva cose che ci inducono a rileggere in chiave diversa la sua ideologia. Queste note del taccuino ci presentano lo scrittore non più come un antifascista, ma come un ammiratore della Germania e dei tedeschi, di cui loda la disciplina, il rigore, l’attaccamento al suolo, il senso della Heimat e della patria.
“La storia non va coi guanti”, osserva obiettando a chi gli riporta le voci dei lager nazisti.
Inoltre, loda la Repubblica di Salò che ricollega agli ideali eroici del Fascismo delle origini, arriva fino a dire che il Duce – perché no – può darsi abbia avuto ragione.
In tempi in cui le passioni politiche erano tutto, lo scrittore visse con disagio questo suo disinteresse per la politica nella continua ricerca di un impegno che gli fosse più congeniale.
Fu così che finì per iscriversi al PCI più per moda che per convinzione.
“Il mestiere di vivere” è una continua rivelazione, uno sguardo intenso, una sorta di esercizio morale.
È diario intimo perché in esso emergono i problemi irrisolti sui grandi interrogativi, le contraddizioni, i sensi di colpa, le difficoltà, le paure, le ambiguità che Pavese incontrò sulla strada dell’apprendimento, di un difficile mestiere di vivere e il drammatico epilogo: il suicidio avvenuto quel 27 Agosto del 1950 all’Hotel Roma di Torino.
È un libro che, sulle orme dello Zibaldone di Leopardi, si presenta come un bellissimo pamphlet di pensieri universali, quasi massime sul contegno umano, sui grandi sentimenti (amore, odio), sulle grandi categorie dell’essere.
“Ora so che queste note di diario non contano per la loro scoperta esplicita, ma per lo spiraglio che aprono sul modo che inconsciamente ho di essere. Quel che dico tradisce il mio essere”.
Cesare Pavese
Il mestiere di vivere ci presenta una creatura inquieta, un uomo di sensibilità elevata, profonda.
Pavese, borghese di formazione, iscrivendosi al PCI tentò di placare il dissidio che lo assillava: quello dell’intellettuale votato solo alla riflessione e mai all’azione.
Lorenzo Mondo su La Stampa del 23 Febbraio 1991 “Per Pavese che ebbe come amico e confidente anche Padre Giovanni Baravalle che lo accolse per sedici mesi nel ’43 nel Collegio di Casale Monferrato, occorre oggi fare un discorso più impegnativo”.
Dunque, una religiosità che lo portava a riflettere, ad interrogarsi.
“Il silenzio è sempre l’invocazione di Qualcuno. È nel silenzio che si gioca tutta la nostra vita, cantai un giorno in una poesia”.
Cesare Pavese
Un invito al silenzio, alla preghiera, alla meditazione? Quasi lo accosto a Giordano Bruno che nel De Umbris Idearum invocava il silenzio per elevarsi, affinché sentisse il tocco divino.
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