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‘Condannati’, storie di grandi idee e pena capitale nel valido quadrifoglio di interpretazioni firmato Casertano-Quercia

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Carditello, 14 set. – L’ultimo addio al mondo, raccontato da quattro personaggi storici. Il suggestivo bosco dei Cerri della tenuta borbonica di San Tammaro, è lo scenario ameno in cui si consumano tra rabbia, delirio e speranza, le vicende di Giordano Bruno, Michele ‘o pazz’, Giuditta Guastamacchia e Angelina Romano.

Antimo Casertano e  Febo Quercia redigono le memorie di due uomini e due fanciulle, condannati alla pena esiziale per eresia, idee rivoluzionarie, assassinio e brigantaggio.

Confessioni e cruenta realtà vengono impastate nello spettacolo ‘Condannati – I delitti della storia‘. I valorosi interpreti dei quattro monologhi sono Luigi Credendino, Antimo Casertano, Irene Grasso e Daniela Ioia.

Le parole testimoniano quanto nel tempo dell’inganno universale dire la verità continui ad essere un atto rivoluzionario, spesso manipolato e ritorto contro grandi sogni e idee di libertà, dileggiate perché distanti dall’opinione comune o dal pensiero politico vigente.

Condannati alla solitudine, all’abiura della libertà e delle proprie aspirazioni, Giordano Bruno, Michele ‘o pazz’, Giuditta Guastamacchia e Angelina Romano, salgono al patibolo, denunciando ai posteri la crudeltà subita. Lo fanno, secondo la scrittura di Quercia e Casertano, fissando occhi negli occhi il pubblico, perché le loro storie entrino come lame nella coscienza collettiva, nel tentativo di ispirare una lettura diacronica e consapevole del gesto della facile condanna, perpetrata giorno per giorno, anche inconsapevolmente e con gesti apparentemente innocui, contro pensieri e persone percepite come “diverse”.

Le storie di Condannati, abbracciano le sorti di tutta l’Italia e soprattutto accomunano ogni fascia di età. Sarà perché effettivamente ci vuole meno sforzo mentale a condannare, piuttosto che a pensare e fermarsi a capire che ognuno ha il diritto di contare a questo mondo.

L’infelicità perpetua è la vera pena da scontare per i quattro personaggi, tratteggiati con abilità dagli autori dei monologhi, che lasciano agli attori la libertà assoluta di vivere e restituire la forza dei propri alter ego in scena.

Così inizia un viaggio straordinario nella cronaca del passato, dove la piccola Angelina Romano (Daniela Ioia), comincia a raccontarsi tra innocenza e incredulità della sorte che le é spettata. Angelina, la più giovane vittima nella storia siciliana,  viene fucilata il 3 gennaio 1862 con cinque pallottole, dopo essere stata catturata e ripetutamente violentata all’età di otto anni.

Amava il mare e sognava di studiare i pesci, come rivela in dialetto trapanese la Ioia. L’accusa che le viene rivolta è quella di brigantaggio. La piccola contadinella  si trova ad interrogarsi sul senso della leva obbligatoria imposta dal regno sabaudo contro i lealisti borbonici. Lo stato d’assedio le ha sottratto familiari e compagnetti. Quando da Palermo arrivano i bersaglieri, tutti scappano, ma vengono catturati e passati per le armi. Angelina in pubblica piazza piange e assiste alle fucilazioni dei suoi cari. Viene catturata facilmente, senza poter opporre resistenza. Il suo è il triste destino di tanti bambini abusati in virtù della loro innocenza…delitto nel delitto, se si considera che Angelina come ben palesa la Ioia nella sua interpretazione, non avesse proprio idea di cosa significasse la parola violenza e di quali barbarie portasse con sè.

Il candore della Ioia restituisce verità al senso di ingiustizia subito da Angelina Romano e lascia un importante messaggio: “Ai bambini non piace la violenza; nessuno osi toccarli”.

Altra giovane, altra vicenda, quella di Giuditta Guastamacchia (Irene Grasso), di origini pugliesi, la cui storia si consuma il 22 marzo del 1800, quando si macchia di efferato omicidio, punito con l’impiccagione.

Cresciuta senza istruzione e data in sposa in giovane età ad un furfante di cui resta presto vedova; si innamora di un prete, don Stefano D’Aniello, tanto da essere additata come donna bella e lasciva. Imprigionata e chiusa in un convento dal padre, perché torni sulla retta via, escogita con l’amante un piano che le costerà la vita: don Stefano le fa prendere come marito il giovane nipote 16enne, che però si accorge dell’inganno e richiama la moglie, disgustato da ciò che ha scoperto. Giuditta programma il suo piano mortale per rivedere l’amante: uccidere il marito. Dopo 4 anni la giovane coinvolge nel delitto premeditato il padre, dicendogli di subire violenze dal consorte, e assolda un giovane chirurgo di 25 anni che diventerà suo amante. Entra in gioco anche un sicario che ucciderà Leonardo. Giuditta gli puntella le ginocchia sul ventre, mentre il padre lo strangola. Farà smembrare il corpo del marito e lascerà bollire la testa di Leonardo in un pentolone per renderla irriconoscibile.

La Grasso ridona voce al fantasma della Guastamacchia, desiderosa di raccontare le sue ragioni. Giuditta si è innamorata dell’uomo sbagliato ed è stata vittima del suo antico amato, che mette in campo un gioco perverso di seduzione, pur essendo consacrato a Dio.

L’anima irrequieta arde nei gesti e negli sguardi della Grasso che con moto perentorio chiede al pubblico: “Quante volte vi è capitato di giudicare senza sapere e di puntare il dito contro qualcuno solo perché lo facevano gli altri? Si arriva a giudicare l’atto estremo, ma troppo spesso si dimenticano le motivazioni: la fame, la disperazione, la paura, l’amore”.

Ancora più forte e coinvolgente l’interpretazione di Michele ‘o pazz (Antimo Casertano). Il cantiniere divenuto comandante nel corso della rivoluzione napoletana del 1799, tra reclusione ed ultimo sorso di vino, ebbro delle sue idee, spiega la causa della sua condanna. Ha creduto di poter diffondere il desiderio di equa libertà di educazione e opportunità, in un contesto pronto ad assoggettare le masse con l’arma dell’ignoranza. Quello di Michele è un monito attualissimo: “La cultura nelle mani giuste fa la vera rivoluzione. E’ questo che fa paura ai potenti ed è per tal motivo che i più forti vogliono imbrigliare il popolo con l’ignoranza”.

Casertano mette in campo tutta la sua vis di rivoluzionario, frutto dell’incorruttibilità delle idee che sanno essere figlie delle virtù tra martirio e tirannia. Da bravo cantastorie coniuga riflessività e necessità di azione, scomponendola in senso temporale, così da dare attualità all’economia del racconto.

Più complesso e stratificato il monologo di Giordano Bruno (Luigi Credendino). Il fuoco avviluppa letteralmente la restituzione interpretativa di Credendino, che si cala nelle fiamme dell’alterco tra fede e ragione, rivendicando l’eternità del pensiero di Giordano Bruno, arso vivo e considerato eretico.

Irrequieto domenicano, temerario e dotto, Bruno è un vero e proprio martire del pensiero; divenuto calvinista per professare il messaggio liberatorio del pensiero contro il dogmatismo della Chiesa, fatto di paure e negazioni, bruciò sul rogo il 17 febbraio del 1600, in Campo dei Fiori. Da illuminista ante litteram Bruno ispira il teatro politico e civile con parole infiammate. Se il suo corpo è stato bruciato, le sue idee non sono state mortificate, perché non è sceso al compromesso della ritrattazione delle proprie posizioni, reagendo così al dominio delle menti.

Con questo excursus, ‘Condannati – I delitti della storia’, catapulta il pubblico nel portale della verità che non è mai assoluta; educa e accultura, con un’operazione artistica pregevole e valida, che conquista e guadagna merito.

 

 


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Pina Stendardo

Giornalista freelance presso diverse testate, insegue la cultura come meta a cui ambire, la scrittura come strumento di conoscenza e introspezione. Si occupa di volontariato. Estroversa e sognatrice, crede negli ideali che danno forma al sociale.