22 Dicembre 2024
Attualità

“Il complesso rapporto medico-paziente: tra nuove alleanze e controversie”

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di Stefania Capogna, Professore Associato e Direttrice del Centro di Ricerca Digital Technologies, Education & Society, Link Campus University e Responsabile Osservatorio Educazione Digitale AIDR

Si è svolta il 25 giugno 2020 la Digital Conference promossa dai centri di ricerca DiTES (Digital Technologies, Education & Society) e DASIC (Digital Administration and Social Innovation Center), della Link Campus University, in collaborazione con AIDR (Associazione Italiana Digital Revolution) per riflettere in chiave multidisciplinare e multi-prospettica sul “complesso rapporto medico-paziente” che le nuove tecnologie sono in grado di influenzare e trasformare.

Il punto di partenza della Tavola Rotonda è stato l’impatto della pandemia globale sulla pratica medica che si è confrontata nell’emergenza – come mai prima d’ora – con un necessario e massiccio uso delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione per garantire il distanziamento e contenere la diffusione del contagio, continuando a offrire assistenza, cura e conforto. Dalle diagnosi on-line, alla ricetta per whastapp, alla consegna dei risultati delle analisi via e-mail, tutte queste pratiche, già esistenti prima del Covid-19, si sono imposte mostrando il fianco alla possibilità e alla necessità di pensare un nuovo assetto socio-sanitario alla luce delle trasformazioni sociali che caratterizzano i giorni nostri.

Il panel di studiosi, esperti, medici e ricercatori si è confrontato su questi temi consentendo loro di analizzare la questione da prospettive differenti.

Il prof. Greco, della Link Campus University, si è soffermato sulla utilità della ridefinizione del concetto di ‘distanziamento fisico’ in luogo dell’iniziale tendenza a parlare di ‘distanziamento sociale’, sottolineando che le tecnologie hanno rappresentato un valido supporto alla configurazione di nuove forme di socialità e riduzione delle distanze, in un momento di grave disagio sociale.

La pandemia globale ha imposto, come sottolinea, il prof. Corposanto (Università Magna Grecia) una nuova ‘spazialità’ e una diversa ‘temporalità, portando alla luce alcune “polarizzazioni” su cui è necessario riflettere. In primo luogo, si richiama la diversità con cui il virus ha colpito su scala globale, andando a pesare in maniera inequivocabilmente più drammatica nei paesi e sulle comunità più povere. In seconda istanza, si è assistito a una sorta di alterazione percettiva della temporalità che vede a un estremo gli elevati ritmi di lavoro di tutte le professionalità medico sanitarie, che si sono trovate a fronteggiare l’emergenza in uno scenario di guerra, e all’altro estremo la dilatazione di un tempo senza tempo che la popolazione in quarantena ha esperito. Ma la questione del tempo chiama in causa anche la contrapposizione tra “la lentezza attraverso cui si costruisce il rapporto tra paziente e medico di base”, una relazione di prossimità che porta il medico a conoscere non solo la storia clinica del paziente ma anche la sua vita, le sue abitudini, il tessuto sociale e culturale in cui è inserito, e la velocità della diagnostica digitale; un’alleata preziosa ma incapace di costruire una relazione empatica.

E’ evidente, inoltre, che il virus abbia evidenziato differenze legate a status socio-economico, età, genere, andando a colpire in maniera più forte nei territori che nel corso degli anni hanno conosciuto l’impoverimento della rete di protezione e assistenza territoriale, segnata dalla riduzione del numero dei medici di base che si sono rivelati il primo interfaccia significativo per il controllo del virus. “Nei territori con meno medici di base, in una perversa relazione inversa, c’è stata più devastazione da Covid”. La pandemia ha messo in luce infatti la stretta connessione tra aspetti biofisici della malattia e quelli bio-sociali, che concorrono alla diffusione del virus nel quadro di un mondo sempre più globalizzato.

Un’altra contrapposizione importante è quella tra “sapere esperto e sapere diffuso” che ha fatto emergere con forza il problema della comunicazione e dell’informazione scientifica necessaria a contrastare la diffusione di fake news e ridurre il rischio di abusi e truffe di ogni tipo.

Andrea Bisciglia (Cardiologo clinico e interventista presso l’Azienda Complesso Ospedaliero San Filippo Neri di Roma e Responsabile dell’Osservatorio sanità digitale di AIDR) individua tre punti nevralgici nel rapporto medico paziente: empatia, sintonia e simpatia. Nell’esercizio della professione medica ci si confronta con diversi tipi di stress che chiedono al medico competenze e attitudini differenti. Alcune interazioni medico/paziente non prevedono interazione, come ad esempio una sala operatoria dove si interviene su un paziente addormentato, e dove è necessario mantenere nervi saldi e freddezza. In tutte le situazioni dove vi è interazione è necessario instaurare “un rapporto interlocutorio dinamico e sempre diverso che non può stare nelle linee guida e nei protocolli sanitari,” perché ogni persona è diversa e portatrice di specifiche istanze. E talvolta è più difficile dialogare e ascoltare che operare. Inoltre, la pandemia ha portato in scena la telemedicina, che in realtà era già presente e utilizzata, ma nello scenario Covid-19 il 63% dei medici si è visto costretto a utilizzarla. E questo ha portato a un’accelerazione generale che prende le mosse dalle opportunità aperte dal digitale, per investire direttamente la sfera della relazione medico-paziente. E’ evidente però che la telemedicina non può sostituire la relazione di cura. Essa può essere un utile alleato per favorire diagnosi di precisione, per il monitoraggio delle malattie croniche, per consentire interventi/assistenza da remoto, per la tempestività dell’intervento ma non è auto-risolutiva. Oggi i pazienti sono mediamente più informati e più esigenti, spesso hanno già consultato la rete e hanno un auto diagnosi e una ipotetica cura; vogliono guarire in fretta. Instaurare un rapporto fiduciario con questi presupposti è molto difficile. La sfida quindi è arricchire la relazione medico-paziente delle nuove opportunità che possono offrire le interazioni mediate e/o supportate dalle tecnologie, garantendo il giusto spazio al riconoscimento delle specificità di cui ciascuno è portatore nel suo vissuto storico, culturale e biografico.

La sfida della telemedicina e di tutta la e-health sposta la riflessione sul tema della corretta gestione dei dati e della sicurezza dei dispositivi. Giustozzi (esperto di sicurezza cibernetica del CERT-AGID) sottolinea che in questa fase di emergenza si sono solo amplificate situazioni di criticità che erano già tutte sotto i nostri occhi senza che ne avessimo sufficiente e diffusa consapevolezza. Internet è stata progettata e sperimentata in un tempo in cui non esisteva il tema dei dati, tantomeno era immaginabile che nel giro di qualche decennio si sarebbe sviluppata un’economia e un mercato dei dati. Oggi si cerca quindi di “correggere l’impianto iniziale, con tutte le criticità che comporta intervenire su un sistema vecchio con misure nuove”. Tuttavia, se da un lato si cerca di porre rimedio con altra tecnologia alla tecnologia esistente, si registra una grave e diffusa lacuna connessa alla carenza di consapevolezza sul suo uso attento e responsabile, accompagnato talvolta da un grave tentativo di negazione o sottovalutazione del problema anche in ambito decisionale. Solo una diffusa cultura digitale può mettere al riparo da quei lati oscuri e proteggere la collettività dalla deriva di reazioni tecnofobe e oscurantiste, alimentate da una scarsa cultura scientifica e tecnologica. Reazioni alimentate quindi dalla paura e dal rifiuto di ciò che non si conosce e non si governa, “alimentate dall’ignoranza”. Cioè dall’ignorare i presupposti di base e i funzionamenti della tecnologia.

Una nota positiva perviene dalla Dott.ssa Alimenti (D.A.S.I.C.) che condivide l’esperienza di un’azione di co-progettazione delle App digitali per la cura e di come questa rimodella il rapporto medico-paziente, sottolineando come sia essenziale un approccio multidisciplinare per la realizzazione di tecnologie e-health, come possono essere le Chat box per la gestione della comunicazione; la progettazione di interfacce per studiare stimoli, coinvolgimento e condizione emotiva del paziente e fornire quindi risposte mirate e tempestive per soggetti fragili, cronici o portatori di disabilità.

Pur essendo tutti concordi che telemedicina e tecnologie digitali possano fornire un valido aiuto nelle emergenze, tutti sono altrettanto consapevoli che nessun surrogato tecnologico potrà mai sostituire il rapporto medico-paziente. Ciò non esclude che sia essenziale investire per fare in modo che tali dispositivi possano coadiuvare e supportare l’assistenza medico-sanitaria in una rinnovata relazione capace di mettere al centro il paziente.

Nel tentativo di tracciare il fil rouge di queste testimonianze la riflessione si sposta su un altro ordine di considerazioni.

In primis si riconosce una crisi di credibilità della scienza e della tecnologia, o meglio una crisi culturale della modernità che ha imperniato il suo modello sociale sul trionfo e un eccesso di fiducia nella scienza e nella tecnologia. Questo nel tempo ha prodotto un corto circuito comunicativo, accompagnato da un effetto di deresponsabilizzazione sia della politica che della scienza. Al contempo, si assiste impotenti alla crisi delle tradizionali cinghie di trasmissione della conoscenza, allorché la scuola non riesce a trasmettere il valore e l’epistemologia della scienza; mentre la collettività è avviluppata in una cultura della salute che appare intrappolata da una parte dal modello dell’ospedalizzazione e dall’altro da una pressante logica di consumo. La sommatoria di tutti questi fattori ha portato nel tempo alla drammatica depauperazione delle comunità e dei territori nel trasferimento di quella ‘prescienza’ fatta di tradizioni, rituali e abitudini sociali e culturali su cui si basa l’architettura sociale della vita quotidiana, contribuendo ad allentare la pre-condizione spazio-temporale in cui si sviluppa la relazione di cura. Una relazione in cui il medico non è solo quello che cura ma contribuisce ad educare il soggetto in una logica di empowerment e presa in carico della salute dei suoi assistiti.

Su un altro piano si pone la relazione con la scienza e la tecnologia. Si vive una sorta di scollamento rispetto alle promesse che questa può offrire. Forse bisogna avere l’onestà di dire che si tende a porre domande e richieste sbagliate a queste due dimensioni del vivere sociale, pensando che queste possano salvare l’umanità dalla sua condizione di finitudine, sconfiggendo la morte, la sofferenza, l’ingiustizia e ogni forma di prevaricazione.

Porre le domande giuste significa orientare le attese e quindi le priorità anche degli investimenti che, per definizione, sono scarsi. Fino a che punto ha senso investire nello sviluppo di ritrovati scientifici e tecnologici che allontanano la morte dalla nostra vista e dal nostro vissuto, alimentando l’illusione dell’immortalità. Quando è noto che i più grandi progressi delle condizioni e della qualità della vita che l’umanità ha conosciuto nel corso del ‘900 (a vantaggio tutto sommato di una porzione ridotta della popolazione globale) sono derivati per lo più dal miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e culturali.

Nel tirare le somme di questo ragionamento emergono alcuni nodi problematici di cui tenere debitamente conto per progettare il ritorno a nuova normalità per quella che viene definita società 5.0. Una società caratterizzata dalla radicale trasformazione del tessuto e degli spazi sociali determinata da:

–     il vorticoso svilupparsi di megalopoli, dove si concentrano quote crescenti di popolazione che abbandonano i territori, e che sono spesso caratterizzati da larghe fasce di povertà, concentrate nelle periferie e/o negli interstizi urbani;

–     un forte invecchiamento della popolazione, in particolare nelle società più ricche, dove l’abbassamento dell’indice della natalità è accompagnato dalla rinuncia sia alla genitorialità, sia alla costruzione di relazioni affettive di lungo periodo;

–   la pervasività della tecnologia che invade ogni ambito della nostra vita, travalicando la nostra stessa capacità di azione e di controllo;

–     una significativa crisi di sostenibilità dei servizi essenziali, ormai considerati diritti acquisiti, come il diritto alla vita, che sfocia spesso nella ricerca dell’eternità attraverso l’accanimento terapeutico e le cure intensive; il diritto alla cura, che si traduce nell’allontanamento di ogni sofferenza e del dolore, con una deriva verso la “pornografia della morte”; il diritto all’assistenza, che sfocia talvolta nella delega di responsabilità e di auto-direzione e/o nella ricerca del capro espiatorio.

La pandemia globale ha chiaramente messo in evidenza la fragilità di questo sistema.

Per ricondurre il ragionamento sul focus di questa tavola rotonda che ha cercato di interrogarsi su come accompagnare un miglioramento della complessa relazione medico-paziente, si intravedono due importanti emergenze che si pongono a livelli differenti.

Il primo riguarda la formazione delle professioni sanitarie. Il secondo investe una dimensione di sistema.

Per quanto concerne il tema della formazione delle professioni sanitarie per il XXI secolo si profilano due macro-aree di competenza emergenti. Da una parte diventa sempre più urgente investire sulla ‘comunicazione medico-paziente’ per aiutare il professionista di cura a costruire quel patto di fiducia che in società globalizzate, multi-etniche e orientate al discredito della scienza e del sapere esperto è preliminare alla cura stessa. Ma resta il problema di come coltivare la sensibilità e la capacità di un ascolto autentico ed empatico che è affatto scontato e mai automatico e trascende la mera competenza tecnica. Si possono infatti conoscere tutte le teorie del mondo e non saperle, e non poterle agire quando si è prossimi al dolore dell’altro o in condizioni di stress o in ambienti organizzativi che non supportano la cultura della qualità delle relazioni. Dall’altra parte è essenziale mettere al centro il potenziamento di competenze digitali affinché questa ampia gamma di dispositivi possa essere integrata e valorizzata nella pratica professionale, senza correre il rischio disumanizzare il rapporto. Anche in considerazione del fatto che la comunicazione mediata dalle tecnologie digitali amplifica il rischio di incomprensione e conflittualità.

William Osler asserisce che “ci sono due tipi di dottori quelli che esercitano con la lingua e quelli che esercitano con il cervello” per sottolineare le distanza tra la dimensione razionale e quella relazionale. A me piace pensare che un professionista di cura debba essere capace di esercitare con il cervello, con la lingua (cioè la parola) e con il cuore, affinché sappia mettere insieme queste tre dimensioni dell’agire personale e professionale. Ed è questa una nuova sfida sia per le università, impegnate a formare nuovi professionisti di area medico-sanitaria, sia per i corpi professionali per garantire l’accompagnamento e la crescita personale e professionale di queste figure lungo tutta la vita.

Per quanto attiene alla dimensione di sistema, occorre ripensare strategicamente la relazione medico-paziente nel quadro delle trasformazioni in atto. Ripensare la relazione di cura, con e senza ausilio delle nuove tecnologie, richiama la necessità di reinventare e ri-progettare tale relazione all’interno di un sistema organizzativo e di un sistema socio sanitario e ospedaliero capaci di de-istituzionalizzare e de-ospedalizzazione la malattia, la cronicità, le fragilità, mediante la costruzione di nuove forme di alleanza e relazioni nei territori, volte a intercettare, riconoscere e valorizzare lo spazio sociale entro cui si muove il malato, per trasformare questo spazio in un valore e in alleato di cura. E’ evidente che questo trascende il tema della relazione medico-paziente e investe direttamente l’idea di quale visione e modello assistenziale e di cura, di relazione centro-periferia e di alleanza nei territori si intende perseguire. Molto più di un problema di professionalità medica ma un problema di health policy su cui servirebbero visioni lungimiranti e compartecipazione a tutti i livelli.

 

 

 


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