La rivoluzione digitale nella cultura. A che punto siamo?
di Francesco Pagano
Consigliere Aidr e Responsabile servizi informatici di Ales spa e Scuderie del Quirinale
Per chi opera nel campo culturale, il termine “cultura digitale” spesso, ahimè, assume un connotato negativo, infatti ancora nel 2020 troppe sono le criticità presenti. Nel pieno della “era digitale” tale settore registra, infatti, un ritardo sia nell’implementazione di strumenti e processi indispensabili per la valorizzazione del patrimonio culturale, sia sotto il profilo della sua fruizione, sia sotto quello del potenziamento di strutture e procedure per la conservazione e valorizzazione.
Le riflessioni per chi opera nel settore culturale devono muoversi anche su altre prospettive. Prima tra tutte la resistenza alla tentazione di affrontare il ritardo attraverso “terapie shock” che rischiano di tradursi in semplici operazioni di cosmesi, mettendo in campo progetti “a effetto” che hanno scarsi effetti sul piano qualitativo a livello dell’offerta di servizi e di gestione del patrimonio culturale.
La pianificazione prima di tutto:
I dati che emergono dalle più recenti indagini effettuate in Italia confermano quello che, troppo spesso, viene ormai introiettato come uno status quo immodificabile. Secondo l’Osservatorio Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano, che ha recentemente sfornato un corposo report intitolato “L’innovazione digitale nei musei italiani nel 2019”, soltanto il 24% degli enti museali nel nostro Paese ha predisposto un piano strategico formalizzato per l’investimento in digitale. Il dato, accompagnato da una impietosa istantanea che fotografa l’assenza di processi di digitalizzazione nel settore, non lascia sperare bene per il futuro. Anche perché, prima di poter mettere in campo una vera pianificazione, occorre chiarire su quali binari questa si debba muovere.
Abbattere le barriere tra le competenze:
Nello scenario attuale, in cui la digitalizzazione attraversa ormai ogni aspetto della vita delle persone, la distinzione tra competenze digitali e competenze professionali ha fatto il suo tempo. Se il ricorso a figure professionali dedicate rimane indispensabile in alcuni settori, come la progettazione e creazione di siti Web o lo sviluppo di applicazioni, esiste un’enorme “area grigia” in cui le competenze si intersecano. L’ambito della comunicazione e dei social network ne è l’esempio perfetto. Il ricorso a “specialisti” come i social media manager, nell’ambito della cultura, si scontra infatti con la prioritaria necessità di mantenere un adeguato livello qualitativo dei contenuti che solo gli addetti ai lavori possono garantire. La soluzione ideale, almeno a livello teorico, è quindi quella di poter contare su figure che siano in grado di accorpare entrambe le competenze.
Formazione, rinnovamento, contaminazione:
Le direttrici di questo percorso, fortunatamente, si intersecano. Nello scenario attuale, la “formazione digitale” di chi opera nel settore culturale è facilitata dalla sempre maggiore diffusione di strumenti tecnologici e da un processo che ha semplificato enormemente l’accesso a forme di comunicazione una volta riservate ai soli specialisti. La condizione indispensabile perché questo processo si inneschi, però, è che si prosegua con decisione verso quell’equilibrio nel rinnovamento di chi opera nel settore più volte auspicato dallo stesso MiBACT e che, da solo, può portare a un vero cambio di marcia nel percorso. Magari abbandonando la logica della rottamazione per abbracciare l’idea per cui introdurre aria fresca tra le fila di chi si occupa di cultura può aprire a una più “gentile” (e fruttuosa) contaminazione a livello di competenze.
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