Malattie rare, Boschi: “Comunicazione aiuta famiglie ma attenzione alle parole”
(Adnkronos) – La comunicazione "è fondamentale perché molto spesso è tramite l'informazione, il racconto anche di storie concrete, e questo riguarda soprattutto le malattie ultra rare, che le famiglie possono addirittura avere i primi elementi per poter poi capire a quali medici rivolgersi e provare a scoprire se è possibile una diagnosi. E' importante dare ovviamente informazioni corrette, scientificamente ineccepibili, ma anche con un'attenzione al fatto che si tratta di persone, non di numeri identificativi, non semplicemente di pazienti che devono essere curati, ma persone che hanno una vita a 360 gradi, quindi ci vuole un'attenzione anche nell'uso delle parole, nel linguaggio". Così all'Adnkronos Salute la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi, intervendo alla cerimonia dell'XI edizione del Premio Omar, oggi a Roma. Boschi torna sul tema degli screening neonatali estesi. "Noi da tempo – ricorda la parlamentare che fa parte della I Commissione (Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni) della Camera – stiamo aspettando che ci sia l'aggiornamento delle malattie rare che possono essere inserite negli screening neonatali a livello nazionale, affinché non ci siano differenze da regione a regione, perché i bambini sono gli stessi, hanno gli stessi diritti a prescindere da dove nascono e purtroppo l'aggiornamento dei Lea crea un'ulteriore incertezza, un ulteriore allungamento dei tempi, e il Governo pare intenzionato a riconoscere soltanto quelle che già noi nel 2017 avevamo inserito nello screening neonatali esteso. Questo vuol dire rinviare ulteriormente la possibilità per tante malattie rare di rientrare nell'elenco". Quando c'è una malattia, "non solo rara o ultra rara – sottolinea Boschi – questa in qualche modo riguarda tutta la famiglia e, in alcuni casi, è necessario un supporto psicologico che riguardi per esempio anche i fratelli e le sorelle, non solo la persona che si trova ad affrontare una malattia rara. E noi riteniamo che i caregiver adulti, spesso anche fratelli e sorelle dei pazienti, debbano e possano avere un riconoscimento di questa attività che prestano, non soltanto da un punto di vista lavorativo, ma anche da un punto di vista universitario. Perché non considerare l'assistenza che prestano come un punteggio, una formazione sul campo rispetto chiaramente ad alcuni percorsi di studi?". —[email protected] (Web Info)
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