12 Novembre 2024
PoliticaPolitica Estera

Nomine Ue, Meloni all’attacco: incognita sul voto. L’assist di Mattarella

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(Adnkronos) – In questi giorni Bruxelles è una Bisanzio del XXI secolo. La quantità di voci, off the record, background e 'spin' nella capitale belga è tale che si rischia di perdere il filo. Un punto fermo: l'accordo sui 'top jobs’, le cariche apicali Ue per la legislatura 2024-29, è stato fatto trapelare martedì tramite l'agenzia Dpa: i negoziatori di Ppe, Pse e Renew hanno concordato sulla tedesca Ursula von der Leyen presidente della Commissione Europea, il portoghese Antonio Costa presidente del Consiglio Europeo, l'estone Kqja Kallas Alta Rappresentante.  Quindi, la partita è apparentemente già chiusa. Un'anticipazione così plateale dell'intesa rischia di rendere il vertice di oggi e domani una formalità, urtando la sensibilità, ma secondo alcuni in un certo senso facendo persino il gioco, di chi è rimasto fuori dall'intesa, come la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il premier ceco Petr Fiala, dell'Ecr, e l'ungherese Viktor Orban, che non appartiene a nessuna famiglia politica 
Meloni prova a battere i pugni sul tavolo, assicura che il suo Paese nel risiko delle nomine "porterà a casa il risultato" senza andare in giro "con il cappello in mano". E un 'assist' in vista del summit europeo è arrivato anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che in occasione della colazione di lavoro al Quirinale con la premier e ministri non ha mancato di far sentire la propria voce: "Non si può prescindere dall'Italia"..  Già la cena informale del 7 giugno era andata male: i leader che erano rimasti due ore ad aspettare i negoziatori, insieme al presidente del Consiglio europeo Charles Michel, come conferma una fonte diplomatica, non l'avevano presa bene, per usare un eufemismo. Se il Consiglio di oggi e venerdì dovesse chiudere la partita con un voto formale, la rottura sarebbe plateale. Certo non sarebbe la prima volta: nel 2014 il britannico David Cameron e l'ungherese Viktor Orban votarono contro Jean-Claude Juncker; nel 2019 Angela Merkel fu caldamente invitata ad astenersi sulla sua pupilla, Ursula von der Leyen, tirata fuori dal cilindro dopo aver fatto cadere, come tanti piccoli indiani, gli Spitzenkandidaten. Tra questi ultimi c'era proprio quel Manfred Weber, il kingmaker delle nomine, che Orban ha accusato di svolgere un ruolo "diabolico". Sulla carta non c'è partita: si vota a maggioranza qualificata rafforzata, cioè almeno 20 Paesi membri a favore, in rappresentanza di almeno il 65% della popolazione. Ppe, Pse e Renew insieme contano su 22 capi di Stato e di governo, cui si può aggiungere, come minimo, il presidente lituano Gitana Nauseda. Non c’è modo, per i due dell’Ecr (Giorgia Meloni e il ceco Petr Fiala), anche unendo le forze con Viktor Orban e con lo slovacco Peter Pellegrini (sostituisce il premier Robert Fico, ancora convalescente dopo l’attacco che per poco non gli è costato la vita), per fermare l’accordo.  Certo, il Consiglio Europeo tenta “sempre” di essere “inclusivo”, spiega un alto funzionario Ue. Tuttavia, aggiunge, “ci sono delle regole”, la maggioranza qualificata rafforzata, e “non possiamo impedire ai leader di fare accordi”, se credono. Non è sicuro che si arriverà ad un voto: “Dovremo valutare esattamente a che punto sono i leader”, dice la fonte. Si dovranno soppesare, eventualmente, “i motivi” che spingono un capo di Stato o di governo a volere il voto: nel 2014 Cameron fu ben contento, per ragioni di politica interna, di opporsi a Juncker, in modo che la sua opinione pubblica sapesse. Da parte della presidenza del Consiglio Europeo c’è una evidente volontà di tenere il più possibile i leader a bordo, anche perché Giorgia Meloni a livello Ue è sempre stata collaborativa. Anche una fonte diplomatica europea ritiene che “più ampio sarà il consenso” sulle cariche apicali, meglio sarà”. Con la premier italiana “si può lavorare”, hanno spiegato ripetutamente fonti Ue. Tuttavia, “il trattato è il trattato, ci sono delle regole”, ricorda l’alto funzionario Ue: quindi, se Ppe, Pse e Renew vorranno scegliere la linea dura, possono farlo. In questo clima, non aiuta il fatto che al presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, che ha notoriamente rapporti pessimi con Ursula von der Leyen, si attribuisca la volontà di voler impedire un secondo mandato per l’attuale inquilina di palazzo Berlaymont.  L’assenza di Michel dal negoziato tra i delegati di Ppe, Pse e Renew il 7 giugno è sintomatica. E ha avuto come risultato che i leader ‘esterni’, quelli dell’Ecr e gli indipendenti, sono rimasti privi di un indispensabile ‘trait d’union’ con la maggioranza. Non è chiarissima neppure l’agenda del summit di domani. Le poche certezze sono che si inizierà prima del solito, intorno alle 14 (doorstep tra le 12.30 e le 13.30), con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che sarà fisicamente presente al vertice, per firmare un accordo che riguarda gli impegni dell’Ue per la sicurezza dell’Ucraina. Dopo interverrà, come di consueto, la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola. Successivamente, si dovrebbe parlare di Ucraina, di Medio Oriente, sicurezza e difesa, competitività, migrazioni, Montenegro, Mar Nero, Moldova, Georgia, minacce ibride e pure di lotta all’antisemitismo e alla xenofobia. C’è anche la roadmap per le future riforme interne. In tutto, sono per ora ben 49 punti di conclusioni, più l’agenda strategica allegata, almeno secondo l’ultima bozza (chilometrica). Gli ambasciatori stanno tentando di ‘chiudere’ il più possibile il testo, per limitare le possibilità di lunghe discussioni tra i leader, che comunque sono altamente probabili, vista l’elevata divisività di alcuni temi. Solo dopo, a cena, è previsto che si parli di cariche apicali e dell’agenda strategica per questa legislatura. Non è chiaro neppure se i capi di Stato e di governo discuteranno prima delle prime o della seconda: “Stiamo ancora valutando”, dice l’alto funzionario. Una fonte diplomatica prevede che la discussione sui ‘top jobs’ si protrarrà nella giornata di venerdì. La partita, osserva, è stata gestita come se ci si trovasse a livello nazionale. Il fatto è che, se Ppe, Pse e Renew dominano, almeno ad oggi, il Consiglio Europeo, al Parlamento Europeo mancano voti per far passare Ursula von der Leyen, che nel 2019 passò per soli 9 voti, grazie al Pis e ai Cinquestelle. Secondo una fonte diplomatica, alla Commissione stimano che la maggioranza possa registrare un tasso di franchi tiratori intorno al 15%, il che vuol dire che i 399 voti disponibili sulla carta non sono affatto sufficienti per stare tranquilli. Von der Leyen ha bisogno di almeno 361 voti, e non li ha. Se l’accordo sulle nomine passerà in Consiglio Europeo, dovrà cercare altri appoggi per assicurarsi la rielezione. Non è previsto un secondo tentativo: se fallisce, i leader dovranno individuare un altro presidente. Sarebbe un disastro per l’Ue, che vuol dar prova di essere in grado di decidere.  
Probabilmente von der Leyen busserà anche alla porta di Meloni, che può garantirle come minimo 24 voti: tanti sono gli eletti di Fratelli d’Italia, una delle delegazioni più numerose dell’intero Parlamento. In realtà sta già bussando, e da tempo: la quantità di visite di persona in Italia della presidente in carica lo attesta con una certa chiarezza. Inoltre, la lettera sulle migrazioni ai capi di Stato e di governo contiene diversi punti che difficilmente saranno dispiaciuti alla presidente del Consiglio, a partire da una chiara apertura allo studio, in questa legislatura, di modalità per esaminare le richieste di asilo “lontano” dai confini esterni dell’Ue.  Tuttavia, deciderà la presidente del Consiglio cosa fare. L’astensione, in caso di voto, è una possibilità, ma non c’è una decisione, almeno finora, secondo una fonte diplomatica. C’è una discussione in corso, anche nella maggioranza (che nell’Ue è distribuita su tre gruppi politici diversi, uno dei quali, il Ppe, guida della maggioranza europea e gli altri due, Ecr e Id, all’opposizione) e c’è stata, come d’uso alla vigilia dei summit, una colazione al Quirinale. La premier deciderà come regolarsi sulla base di tutti questi elementi.  Comunque vada a finire il Consiglio Europeo sulle nomine, la partita si sposterà a Strasburgo, poco dopo la metà di luglio, dove i numeri sono assai meno solidi che all’Europa Building. E’ probabile che von der Leyen li cerchi a destra, nell’Ecr, e a sinistra, tra i Verdi, senza però aprire formalmente la maggioranza a nessuno dei due. Ancora ieri, la capogruppo socialista Iratxe Garcia Perez ha ripetuto per l’ennesima volta che una collaborazione con l’Ecr è una “linea rossa” invalicabile per i Socialisti. Ma, per dirla con l’eurodeputato di Renew Sandro Gozi, non si può certo impedire a Fratelli d’Italia “di fare una cosa giusta”, votare per von der Leyen. L’importante, agli occhi di Renew, è che i voti dell’Ecr non siano decisivi. Del resto i polacchi del Pis votarono von der Leyen nel 2019, quando erano al governo, e Fdi, anch’esso nell’Ecr, comprese perfettamente. A proposito di Ecr, il gruppo avrebbe dovuto tenere oggi la riunione costitutiva, ma è slittata di una settimana, al 3 luglio. Sul resto delle conclusioni, non è atteso lo sblocco degli aiuti militari all’Ucraina tramite l’Epf, lo strumento fuori bilancio usato per sostenere Kiev, bloccato da mesi dal veto dell’Ungheria. Ungheria che, ad oggi, non ha annunciato veti sull’agenda strategica, pur chiedendo emendamenti talora impossibili da accogliere. “Vedremo”, si limita a dire l’alto funzionario Ue.  Sulla Georgia, i leader manderanno un messaggio “chiaro” a Tbilisi, e in particolare all’opinione pubblica georgiana, per evidenziare che il percorso intrapreso dal governo, con la cosiddetta ‘legge russa’, allontana il Paese dall’adesione all’Ue. E’ necessario chiarirlo al massimo livello, anche perché diversi media georgiani tendono a convogliare all’opinione pubblica il messaggio opposto. —internazionale/[email protected] (Web Info)


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