Recensione – Don Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno, il teatro imbastito su misura dall’impeccabile Roberto Capasso
La farsa è un genere che può contenere tutto. A dimostrarlo al Teatro Tram di Napoli, è Roberto Capasso, attore e regista del riadattamento dell’originario testo di Antonio Petito, ‘Don Felice Sciosciammocca, creduto guaglione ‘e n’anno’, riproposto in una rilettura concreta, impeccabile, teatralmente perfetta.
La farsa di Petito, re dei Pulcinella, si fa strada nei tempi moderni, grazie a Roberto Capasso, che con un teatro molto fisico, porta sulla scena, alla sua maniera, Don Felice Sciosciammocca, intento ad incontrare un Pulcinella borioso appena il giovanotto si innamora della propria figlia, desiderando condurla a nozze.
L’esordio dello spettacolo è affidato ad attori che, come in un carillon estatico, animano le antiche maschere del teatro, dando corda a due personaggi presentati secondo la logica circense che assegna ai suoni e alle movenze, il fotogramma del narrato dell’incontro tra Pulcinella e Felice Sciosciammocca. Lo spettacolo è uno specchio della maniera di far teatro in senso primordiale e puro, affidando al corpo dell’attore la calamita per attirare a sé il pubblico. C’è modernità nella sincronia tra scelta musicale e movenze degli artisti, che di fatto lasciano danzare una storia di tradizione popolare per cui ci si aspetterebbe di incorrere in una classica vaudeville, epigrammatica per il genere riproposto da Capasso, mentre ci si ritrova a cullare narrato e personaggi, con sonorità delicate, armoniche ed avvolgenti.
Gli oggetti scenici di questa piéce sono co-protagonisti di ogni singolo spazio conquistato dagli attori sul palco. Seppur ci si trova in assenza di un iniziale parlato nella narrazione, la trama assume il suo pieno significato ed incontra il piano del significante in ogni più piccolo rumore della bottega di un Pulcinella calzolaio che lavora all’italiana, perseguitato dalla cattiva sorte nello sfamare una figlia maggiore ed un neonato.
Lo spettacolo farsesco funziona ed esercita la sua attrattiva sul pubblico. La validità del lavoro di Capasso dimostra come il suo riadattamento potrebbe, trasferendosi sulla Ville Lumiére o nei londinesi Mews, con la sua poetica, catturare lo sguardo di un viandante peregrino, rapito dall’enfasi di validissimi attori della commedia dell’arte. Pulcinella e Felice non sono maschere, ma tratti distintivi di un teatro che si fa strada nel mondo con i suoi topoi espressivi. Così lo spettatore napoletano immagina questo spettacolo inscenato negli angoli più disparati, toccati da una storia di incantevole tratteggio grazie alla regia di Capasso, che dona alla miseria di Pulcinella e alla goffa incursione di Don felice nella sua vita, un’aurea fulgida. Capasso scrive una bella pagina teatrale che è nutrimento scenico per l’artista e per il pubblico che lo applaude. Sceglie al suo fianco colleghi altrettanto in sintonia nel rileggere l’intero Dictionnaire du theatre in modo non ideale, ma tangibile. Nello Provenzano è un Pulcinella che ha ritmo ed affabula, seguito dalle figure di Valentina Martiniello e Miriam delle Corte, chiamate con grazia ad accordare l’intera vicenda ed il suo meccanismo, a volte piacevolmente malinconico, altre volte più allegro.
La farsetta di Capasso consente di rivivere, teatralmente parlando, ricordi di un teatro prezioso, che accompagna il mondo incantato della recitazione. Regala contemporaneamente un esercizio di stile che lo spettatore conserva nei suo occhi, restituendo un applauso pieno e grato per ciò che gli attori hanno donato.
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