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Recensione – ‘Il Colibrì’, un volo essenziale dal dolore alla consapevolezza nell’interpretazione di Pierfrancesco Favino

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 Dalla Festa del Cinema di Roma alle sale cinematografiche. Pierfrancesco Favino torna con un  film tratto da un romanzo biografico complesso di Sandro Veronesi, trasposto in pellicola da Francesca Archibugi.

Si tratta di pagine di vite e torpore, portate sul grande schermo con garbo, tatto ed eleganza. ‘Il Colibrì’ è dunque un volo dal dolore alla consapevolezza, restituito con frammentarietà di intenti da una regia che desidera porre l’accento sull’irregolarità dell’esistenza.

Marco Carrera (Favino), è il fulcro del girato. Uno squillo telefonico dá il via al narrato e fa da filo di Arianna per il film che presenta subito il flashback familiare del protagonista. In un’atmosfera amarcord un pezzo di vita di Marco si presenta allo spettatore in sala, per dare senso a ció che Carrera proverá da adulto. Così nel girato compare il mare, le cui onde simulano l’infrangersi dei nostri momenti, pronti a tornare ogni volta con rinnovato tumulto, al senso di stasi dei nostri arresti emotivi, nel loro movimento sussultante. C’é malinconia nelle battute ‘andiamo a vedere se siamo ancora capaci’, pronunciate da una Laura Morante che si dirige in esordio in spiaggia, mentre il figlio Marco si accinge a sperimentare con Luisa le gioie del primo amore. In un attimo la pioggia battente cancella il ricordo e presenta nel film Nanni Moretti (Daniele Carradoni), in cerca del Carrera, ormai diventato medici. Lo psicanalista rivela a Marco di essere in grave pericolo a causa dei delicati equilibri del suo matrimonio con Marina (Kasia Smutniak). Lo identifica con il suo soprannome, ‘Il Colibrì’, datogli perché era per costituzione il più piccino dei fratelli. Da qui il titolo del film, fatto di cornici nella cornice. Compaiono dunque nella pellicola, la tematica della stigmatizzazione dell’altro a causa del pregiudizio, degli amori giovanili infranti e mai dimenticati, di una vita adulta diversa da quella sognata, della malattia, del tradimento e della frustrazione.

Favino dá pienezza all’incertezza dell’uomo medio, impegnato a decidere una vita mentre commette errori. Nello stare sempre un passo indietro del colibrì risiede tutta la recrudescenza dell’ingestibilitá di alcuni rapporti. La Archibugi ci lascia così comprendere gradualmente, con lentezza, come i nostri attimi siano gocce cadenti da rubinetti mal chiusi, che battono col loro rumore, sul senso delle nostre interruzioni interiori. Che cos’é il senso di colpa? É ció su cui l’arrendevolezza si posa come rugiada, bagnando la pietrificazione delle nostre paure, a cui Favino conferisce delicatezza anche nella drammaticità. Il Colibrì resta un film sospeso, come un filo invisibile che lega, senza dare libertá di spiccare il volo, fin quando non si diventa eroi trovando la forza di dare un nome al vuoto del cuore e allo sforzo che é la vita.

 


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Pina Stendardo

Giornalista freelance presso diverse testate, insegue la cultura come meta a cui ambire, la scrittura come strumento di conoscenza e introspezione. Si occupa di volontariato. Estroversa e sognatrice, crede negli ideali che danno forma al sociale.