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Recensione – ‘Mare di ruggine’, il teatro verità di Antimo Casertano sottrae all’oblio la storia dell’Ilva di Bagnoli

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Fisico, roboante, duro come la ghisa nella verità del racconto sbattuta in faccia al silenzio del tempo e della storia. ‘Mare di ruggine’, spettacolo in scena fino al 6 ottobre al Piccolo Bellini di Napoli,  è un grido, un palpito, una necessità. La sua regia è dono di un artista-fabbro che diventa cesellatore della parola e del significato di cui si fa carico.  Il testo scritto, interpretato e diretto da Antimo Casertano è teatro che si sente in ogni suo linguaggio ed arriva responsabilmente ai tre motori dell’umano sentire: testa, cuore e pancia. La meravigliosa ed intensa ricostruzione della storia dei lavoratori dell’Ilva di Bagnoli, poi divenuta Italsider, cerca di spolverare tutta la fuliggine omertosa accumulatasi negli anni intorno al racconto di un’area fumigante, simbolo della ascesa e della degenerazione del capitalismo. Casertano racconta 100 anni di pseudo industrializzazione a Bagnoli, alimentati  dalla dedizione di operai che nel gigante di ferro dell’Ilva hanno speso e perso la vita, ammalandosi fino a morire.

Presenta la storia come una favola per cui si attende ancora un lieto fine. Al centro del narrato, protagonista silenzioso è il carbon coke con le sue potenzialità ed i suoi rischi, alleato e detrattore dei personaggi che in scena interpretano operai desiderosi di lavorare per svoltare nella quotidianità grazie al posto fisso. Spalanca gli occhi sulla attualità di un deserto di terra su cui fantasiosamente sono state e continuano ad essere costruite aspettative poi disattese dalla politica.

In qualità di commediografo e regista, Casertano tratta con lucida forza una vicenda affondata nell’oblio da 30 anni. Il suo come sempre è un teatro sociale, perchè insegna ad andare oltre; a fermarsi sulla storia, attraversandola senza paura, consapevoli che non dimenticare ci salva. L’Ilva di Bagnoli, con tutte le sue diramazioni sul territorio nazionale, non è stata solo palestra in cui investire in termini di crescita territoriale, ma concausa di avvelenamenti, disastri ambientali e decessi annessi alla sua storia.

Casertano era un ragazzino che vedeva dalla finestra della sua casa un mostro color ruggine impiantato sul mare di Bagnoli. L’azzurro del mare era diventato parola chiave per le assunzioni degli operai – eroi dell’acciaieria progettata per il riscatto del Mezzogiorno dagli inizi del Novecento in poi. Intenso, pulsante e potente, il testo teatrale è arte che sputa sul fuoco dell’Ilva che ha sgualcito sogni e vite. “Muoio con la famiglia a posto’ è la frase che racchiude l’anima di un racconto caravaggesco ed emozionante nei suoi monologhi e dialoghi, pensati per pungolare la riflessione dello spettatore. Il simbolismo dello spettacolo è calibrato in modo sapiente e determinante per la resa scenica. Si inserisce in una regia che affonda la lama nell’esigenza di rispetto della vicenda di tante famiglie, i cui capostipiti sono morti giovani e innocenti a causa dei rischi taciuti sull’Ilva. Tutti sapevano, nessuno parlava. Così il grottesco si avvinghiava intorno alla speranza di sopravvivenza di tanti giovani che agognavano  essere assunti nell’acciaieria per scappare dal pantano della povertà e della instabilità lavorativa.

Il sogno dei dipendenti cullato dal vento caldo dell’inferno dell’Ilva diventa frutto di una sorta di contrappasso dantesco messo a punto dalla sagace scrittura di Casertano che nella sua regia dona solenne memoria a tutti quegli sconosciuti che hanno affidato ignari, il loro destino al gigante di ruggine. “Nemmeno la morte ferma il cantiere”, si ripete nell’ Osanna intonato come devozione all’amianto. La guerra ed il regime fascista che con i suoi fermenti ha scaldato i motori dell’Ilva fino a riempirla di 4.000 dipendenti, si fa strada nella voce di Luigi Credendino data a Nunzio, responsabile del cantiere, la cui esperienza è megafono del dolore a cui viene messo il bavaglio. La sua avvolgente interpretazione diventa singulto nel ghiaccio della fame e della paura della seconda guerra mondiale. Credendino fa palpitare una vicenda paradigmatica per tante famiglie napoletane, liquidate con quattro spicci alla chiusura dell’Ilva dopo aver investito e creduto nel miracolo dell’acciaio.

Teresa (Daniela Ioia), è la donna a cui viene affidato il duplice ruolo di operaia e moglie di un dipendente dello stabilimento di Bagnoli. Si destreggia come calamita sul palcoscenico, lasciando emergere con bravura tutti i chiaroscuri emotivi dei personaggi femminili che prospetticamente si annidano intorno alla vicenda dell’Italsider. Interpreta cordoglio, disperazione e coraggio delle donne che hanno sostenuto moralmente il peso delle conseguenze dell’Italsider. Sutura insieme a Francesca De Nicolais, tutti gli strappi emotivi che “le mogli del gigante di acciaio”  hanno dovuto subire in nome della prospettiva del progresso.

Antimo Casertano, supportato da una compagnia di attori competenti ed appassionati, compie la sua operazione storiografica priva di damnatio memoriae; denuncia e scuote, ed ancora scompagina la storia rovistando negli stralci sdruciti delle vicende legate all’Ilva. Il brulichio delle voci indaffarate ed affannate dei suoi personaggi, vive nella significativa e poderosa riproposizione scenica di Ciro Esposito, Gianluca Vesce, Lucienne Perreca, assimilabile al mosto che ribolle di continuo nel cuore dello spettatore, prima di prendere corpositá, per traghettarlo verso il sapore della consapevolezza.  Eternit, traslitterazione di eternitas, diventa nel suo spettacolo un gioco seduttivo e diabolico, costruito intorno all’impiego dell’amianto, presentato come passpartout per il progresso. Casertano con il suo lavoro teatrale va a fondo; istruisce e spiega. Scava, mescola e ricerca nelle emozioni così come nelle esigenze, senza tradire mai la verità. Denuncia e scuote. Lo spettacolo è una marcia per i diritti; è lavoro amanuense di Casertano e della sulla compagnia,  sulla storia contemporanea di un territorio, quello napoletano, che cerca di ricucirsi con obiettività con il suo passato ed il suo futuro nell’ottica del riscatto.


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Pina Stendardo

Giornalista freelance presso diverse testate, insegue la cultura come meta a cui ambire, la scrittura come strumento di conoscenza e introspezione. Si occupa di volontariato. Estroversa e sognatrice, crede negli ideali che danno forma al sociale.