Recensione – My Fair Lady, il musical perfetto per il talento di Serena Autieri
Il musical perfetto arriva a Napoli. Se Brodway lo ha elevato a vessillo per numero di repliche in assoluto rispetto ad ogni altro spettacolo, l’Italia non può che spalancargli le braccia accogliendo Serena Autieri come degna ed elegante erede di Judy Garland prima e Audrey Hepburn poi. Elegante, leggiadro, raffinato, My Fair Lady nel suo debutto al Teatro Augusteo trasporta l’atmosfera londinese a Napoli con un tuffo nella lirica e nella visione contemporanea che dá al romanticismo e al riscatto sociale una nuova identità: quella di donna che sa afferrare a piene mani il suo futuro, rivendicando un proprio spazio nel senso più moderno del termine!
Serena ha tanto sognato questo ruolo ed ora, nel rappresentarlo, ha trovato la sua dimensione piena. Il musical d’altronde è un habitat che sa padroneggiare egregiamente, incalzandolo col colore ed il brio che la contraddistingue ogni qual volta calchi la scena. La solidità della sua interpretazione è assicurata da due colonne portanti ed efficienti nella dinamica del musical trasposto in italiano: Manlio Dovì (Colonnello Pickering), caratterizzato in modo innovativo con sfumature da cabaret che danno vivacità al ruolo e Ivan Castiglione (Henry Higgins), docente che sa tenere le redini di coprotagonista con salda padronanza canora, oltre che recitativa. Eliza Doolittle sa essere frizzantemente comica nel tentativo di districarsi in una iperbole linguistica migliorativa.
Amabile l’apporto allo spettacolo dato dall’incisivo ruolo di Fioretta Mari (Mrs. Higgins), e dell’intero corpo di ballo, che funge da appoggio per ogni singolo momento delle tre ore serrate di spettacolo. La cavalcata tra prosa, canto e danza, simula alla perfezione l’ambientazione dell’ ippodromo in cui Eliza, da vecchia fioraia testa se stessa nel nuovo ruolo di duchessa. La scenografia essenziale ma significativa di Gianni Santucci, non sottrae spazio alla messa in scena, ma la arricchisce in modo discreto, contribuendo all’incanto misurato di uno spettacolo che sa essere irresistibile sia per ì nostalgici di un certo tipo di spettacolo, sia per gli avanguardisti che amano attingere dal passato per darvi spunti nuovi.
Perfino l’uso del dialetto ‘transappeninico’ della versione italiana, un po’ umbra, un po’ laziale, figura come una Primavera botticelliana in cui il soffio nuovo di Zefiro, per mano della musicalità del maestro Enzo Campagnoli, rinfresca le obsolete atmosfere londinesi, conferendole pennellate di brio in una favola completa.
Durante la messa in scena si ha il sentore di volare con la fantasia, soprattutto nel primo atto, tuffandosi a momenti in una pellicola in bianco e nero in cui il manierismo si sostanzia nell’ essenzialità dei gesti e delle parole fatte e dette al momento giusto. In fondo My Fair Lady dimostra ancora una volta che non serve la spettacolarizzazione per rendere efficace una espressione artistica. Basta saper far bene il proprio lavoro, come han dimostrato tutti gli artisti in scena, per tramandare in modo degno e rispettabile un genere e uno spettacolo che sa sopravvivere al tempo.
Il valore dell’erudizione, della formazione per opera di un pigmalione incarna il sentimento di valori portanti a cui non bisogna sottrarsi negli anni, per trasformare in evoluzione qualsiasi esistenza. La storia di un grande successo replicata a teatro e al cinema, si riconferma opportunità artistica, grazie all’istinto teatrale di Serena Autieri e del produttore Enrico Griselli, che insieme hanno creduto nella necessità di rinverdire in Italia un genere considerato prima “troppo americano”, a cui è giusto accostarsi senza abbarbicarsi al preconcetto.
Foto e video di Arturo Favella
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