Recensione – Whitney Houston, il biopic sulla voce più premiata della storia
Un nuovo biopic sull’artista più premiata della storia. Naomi Achie é Whitney Houston, una voce diventata leggenda. Al cinema arriva una storia d’amore per la musica ed una perenne lotta con i demoni della cantante, salutata come principessa d’America. Uno spaccato del mondo pop a stelle e strisce con sprazzi di glamour e virtuosismi sulla gloria di Whitney, figlia d’arte, che offre un racconto pieno di spunti narrativi, cuciti sul ritratto di una ragazza del New Jersey che ha vissuto un successo globale. Kai Lemmons porta sullo schermo l’ascesa e la caduta di una star della musica internazionale e lo fa in modo semplice, chiaro, ripercorrendo tutti i successi dell’artista che ha messo d’accordo neri e bianchi col suo canto impareggiabile.
La forza di questo biopic è la sua intimità che rende la Houston umanizzata nonostante fosse candidata, per dono, ad arrivare con la sua voce, fino alle scale degli dei.
Whitney non è stata il prolungamento della madre Cissy Houston, né della zia Dionne Warwick o della madrina Aretha Franklin; è stata semplicemente se stessa, nel modo di cantare e sbagliare, svincolandosi dal dovere di dare dignità alla musica black, perché la canzone non ha colore; conta solo saper cantare bene. Non c’è mitizzazione nel suo ritratto come accaduto per il biopic sulla Franklin, ad esempio. Esiste solo la narrazione di una donna sulla cui vita lo spettatore spera di intervenire per alzare il freno a mano, fino a salvarla dalla degenerazione.
Una bottiglia di Dom Perignon per ogni hit é il prezzo pattuito per ogni successo ottenuto da Nippy, soprannome della fanciulla che cantava in un coro gospel con la madre. A stabilire questo silenzioso patto con la Houston è il suo produttore discografico, Clive Davis, interpretato per l’occasione da un eccezionale Stanley Tucci, ormai calzante in ogni pellicola come guida per ciascun attore.
Il film lascia scoprire tanti elementi inediti sulla pop star planetaria: fu lo stesso Kevin Kostner a scegliere la Houston come coprotagonista in The bodyguard e a farle provinare la colonna sonora ‘I will always love you’, cantata in un demo da Dolly Parton. La pellicola decretò il successo assoluto per Whitney, tanto che per partecipare al film dovette rimandare le nozze con Bobby Brown (interpretato da Ashton Sanders), star dell’R&B ed uomo che di fatto ha contribuito alla fuga della star nel mondo della droga.
Il girato può essere valutato dissonante rispetto alla carriera monumentale della Houston, eppure la sua ricchezza risiede proprio nel far scendere dal piedistallo la voce più bella degli anni Ottanta in America. Ogni piano sequenza è un soffermarsi sulle personalità dei familiari di Whitney, che di fatto ne hanno condizionato la vita. La cantante inseguiva l’idea di una famiglia perfetta a cui non è mai appartenuta e che non è mai riuscita a costruirsi. Questo è stato il suo cruccio più grande, quello che l’ha spinta nel baratro della tossicodipendenza che l’ha uccisa a soli 48 anni, quando avrebbe potuto donare ancora un po’ della sua voce al pubblico.
Del film resta la memoria degli splendidi testi cantati dalla Houston, definita ‘The Voice’, al pari di Frank Sinatra, da Oprah Winfrey. Fu proprio la nota presentatrice a dare una seconda possibilità all’artista che si era appena ripulita da crack e cocaina. Nel biopic si traccia dunque l’immagine di una principessa finita in una brutta favola, pur avendo l’assoluta voglia di danzare con qualcuno (il suo pubblico), sulle note di una splendida canzone.
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